Dal pranzo da Re alla “schiscetta”: abitudini alimentari di fine Ottocento
Servizio alla russa o alla francese?
Menù da infinite portate o una scarna “schiscetta” in fabbrica?
Il servizio alla russa
La nostra storia nasce nel 1810, quando l’ambasciatore dello Zar a Parigi, il Principe Kourakin, propose un nuovo modo di consumare i pasti: il “servizio alla russa”.
A differenza di quello francese, con il servizio alla russa gli ospiti all’inizio trovano una tavola riccamente apparecchiata con piatti, tovaglioli, bicchieri e posate, grandi centri tavola in argento, cristallo e specchi, alzate varie ma nessuna preparazione o al massimo gli antipasti freddi. Le varie pietanze vengono quindi servite di volta in volta dai camerieri a tutti i commensali, dopo essere state presentate e porzionate davanti ai convitati.
Ha inizio quindi un nuovo modo di consumare i pasti: meno tempo dedicato alla preparazione e si riducono lo sfarzo e lo spreco.
Come nell’abbigliamento, così pure in cucina si afferma la misura borghese ostile non alla ricchezza ma alla sua esibizione.
Una cucina borghese
Sorta in Francia sin dagli anni tra il 1715 e il 1750 è la nuova proposta di una cucina anche economica, che rifugge sprechi, splendori insoliti e stravaganze, in nome di una cucina semplice ma saporita, non fine ma equilibrata, ragionevolmente sana, pratica ed oculata appunto.
Ad una cucina incentrata sulla carne e votata grazie alle interminabili frollature, alle cotture plurime, alle violente speziature e all’occultamento dei sapori naturali, si sostituisce una cucina che scopre gli alimenti freschi,i vegetali, le erbe aromatiche, gli accostamenti oculati, la sapiente alchimia delle nuove salse, dei fondi e delle glasse.
Anche se l’idea della buona cucina nacque sicuramente in Italia (a Vialardi, aiutante capocuoco di Corte e alle dipendenze di chef francesi come Ayers ed Hèlouis, si deve infatti la nascita dei maestosi banchetti all’italiana), l’arte della buona cucina fu coltivata solamente dai francesi.
La vertigine del gusto: il piacere dell’esagerazione
La terminologia usata nella descrizione delle ricette è espressa con un lessico il più possibile corretto anche se spesso traduce i termini tecnici più complessi in un linguaggio più accessibile per una facile lettura; questo per ottenere quasi un aspetto didattico per una facile lettura.
A Corte ci si esprimeva in francese e piemontese e sappiamo come per Vittorio Emanuele II avesse difficoltà ad esprimersi in italiano. In cucina la terminologia era quella francese e il francese codificava i titoli delle preparazioni, gli ingredienti e molti degli utensili; poiché però la maggior parte degli aiutanti era torinese, espressioni dialettali si mescolavano alla lingua d’oltralpe: spesso ne veniva fuori un linguaggio ibrido e colorito, quasi un’idioma per iniziati. Un linguaggio che oggi fa anche sorridere, come quando ci fa saper che il cinghiale “ucciso dopo una lunga corsa è migliore del porco” e quando ci parla del tasso le cui carni sono, a suo giudizio, inferiori a quelle del maiale; comunque si cucina come il porco. Ugualmente non può mancare il sorriso quando spiega come si prepara il cappone “…piccategli bene lo stomaco e le coscie con pezzetti di lardo tagliati grossi come la penna da scrivere e lunghi tre dita…”
Le dosi di queste ricette siano oggi improponibili; quando ci parla ci prescrive “un ettogrammo di burro, oggi ci sgomenta, è un insulto al colesterolo, minaccioso come un iceberg rovesciato sulla tavola.
Che l’autore sia dell’Ottocento è facilmente rivelato dal frequente linguaggio quando dice di “tramenare” che vuol dire in realtà “rimescolare” e quando raccomanda di conservare il tutto in luogo fresco, ci costringe a ricordare che allora il frigorifero non era ancora stato inventato e le nostre bisnonne, quando potevano, acquistavano il ghiaccio a blocchi, poi lo sistemavano con un po’ di stracci sul lavello e gli ponevano accanto quanto doveva essere mantenuto fresco anzi conservato.
Con i sistemi di allora le carni non dovevano risultare poi sempre freschissime; da ciò l’esigenza di “ravvivarle” con sapori forti, di profumarle, di aromatizzarle, e l’uso che il Vialardi fa del tartufo fu encomiabile ma tanta abbondanza sbalordisce. Il tartufo era allora sicuramente più accessibile, meno caro ma va pur tenuto conto che l’autore, solito a muoversi nella cucina del re, non aveva poi troppi motivi per preoccuparsi nel fare economia.
Pranzo da Re
Non è da escludere che Vittorio EmanueleII, abituato a consumare abitualmente cibi popolari di tradizione regionale – stufati, arrosti, cacciagione, bagna caoda – con familiare disinvoltura quanto a posate e tovaglioli, avesse biosogno di un severissimo autocontrollo in occasioni pubbliche. Come non manca di far capire il conte Elenry d’Ideville, segretario della delegazione francese a Torino: “Il re è sobrio, mangia una sola volta al giorno, ma abbondantemente e preferisce i cibi grossolani e popolari. Quando è costretto ad assistere a un banchetto ufficiale, a un pranzo di Corte, non svolge nemmeno il tovagliolo, non tocca cibo: con le mani appoggiate all’elsa della sciabola, esamina i convitati, senza cercar di nascondere la noia e l’impazienza”.
Tra i piatti preferiti dal Re ricordiamo: i Tajarin, la Selvaggina al civet o alla brace, senza disdegnare la classica bagna caoda, rigorosamente con solo aglio, olio e acciughe; le uova sode servite tritate con prezzemolo e olio.
Un accenno ancora al Gran Bollito Piemontese che come si sa piaceva molto a Vittorio Emanuele II sin da quando era Principe di Savoia in attesa del trono, scappava spesso dalla Corte di Torino per lui bigotta e noiosissima dove era costretto a recite di devozioni, a portare rigide uniformi dai colletti alti e duri e a mangiare male, cattivi brodetti magri e speziati, alla maniera della corte di Vienna e allora andava spesso a Moncalvo, con tre scopi: andare a caccia, fruire di spicciativi amori con villanelle compiacenti e fare con gli amici allegre mangiate di bollito, generosamente accompagnato da barbera….
Il “bicerin” di Camillo Benso Conte di Cavour
Sappiamo dell’amore di Cavour per la buona tavola, passione che lo accompagnava sin da giovanissimo come documenta la lettera che suo padre scrisse alla moglie: “ Nostro figlio è un ben curioso tipo. Anzitutto ha così onorato la mensa: grossa scodella di zuppa, due belle cotolette, un piatto di lesso, un beccaccino, riso, patate, fagiolini, uva e caffè. Non c’è stato modo di fargli mangiar altro!”. Già da queste sue abitudini alimentari si sarebbe potuto intuire che Cavour poteva essere una presenza ingombrante non solo negli equilibri politici ma anche in quelli gastronomici.
Cavour era grande amante del “bicerin”, storica bevanda calda e analcolica, tipica di Torino città; si tratta di un’evoluzione della settecentesca “bavareisa” gustosa bevanda composta da una mescolanza di caffè, cioccolato e fior di latte. Si beveva solo fino a mezzogiorno e sempre accompagnato da paste fragranti, secche e profumate: crociòn, garibaldin, brioss, chifel, biciolàn, torcèt, parisien, forè, democratic, cicia d’monia, picòl d’frà, michette.
Un capitolo a parte si deve all’immancabile vermouth, sempre presente sui tavolini dei caffè torinesi frequentati da Cavour e dagli uomini politici del tempo; si tratta di un vino liquoroso aromatizzato con piante aromatiche delle quali la più importante è l’assenzio maggiore. Fu inventato nel 1786 da Antonio Benedetto Carpano e che divenne ben presto simbolo del Piemonte in Europa.
Nei meù del ristorante torinese “Il Cambio” ritroviamo spesso accanto ad “asperges à la milanaise e tournedos primeur, anche risotto o le scaloppine di vitello alla Cavour. Sono rimaste celebri anche le guarnizioni alla Cavour: consiste in fettine di polenta di farina gialla fritte o infornate, su cui vengono messe le fette di carne, ricoperta dal fondo di cottura deglassato e ch accompagnano scaloppine di vitello e fette di animella brasate; altra “guarnizione” accompagna grossi tagli di carne arrostita e consiste in crocchette di semolino fritte.
Nel 1904 nascono ben cinque piatti “alla Cavour”: un potage, crema di riso al brodo con tuorlo, una téte de veau (testina di vitello con olive, crostini e pomodori), un cappone, un gelato al limon e pudding di riso e ancora gli agnolotti e la finanziera alla Cavour.
Se il Conte davvero gradiva tutte queste preparazioni e le richiedeva assiduamente, tanto da associarne per sempre la ricetta al nome, ci viene il legittimo sospetto che lo statista passasse molto del suo tempo seduto al tavolo. Ciò probabilmente è vero anche se, nei turbinosi anni intorno all’Unità d’Italia, era un vezzo francese e una moda europea, dedicare i piatti ai personaggi o agli eventi storici. Aggettivi che, senza troppo sforzo, regalavano alla ricetta nobiltà e, in fondo, individuando una data di nascita, anche tipicità.
La sopravvivenza della gente comune
In Italia e più in generale in tutta Europa, contadini ed operai avevano nella “sopravvivenza” l’unica cucina possibile, anche e soprattutto nell’Ottocento e sino alla metà del Novecento.
L’alimentazione base constavano di pane di segale, polenta e latte, di patate cucinate in varie maniere e di minestre condite ora con burro e latte, ora con lardo e strutto di maiale. Quest’animale è veramente prezioso nella economia domestica: tant’è che quasi ogni famiglia comprava un maialetto in primavera per ingrassarlo e ucciderlo poi in dicembre o in gennaio e conservarne le carni essicate o sotto sale, per tutto il corso dell’anno.
Altro elemento importante dell’economia familiare è pure il formaggio, ovviamente di origine locale.
Come bevanda era in uso il vinello di sei, sette o otto gradi.
L’alimentazione durante la Seconda Rivoluzione Industriale
Durante la Prima Rivoluzione Industriale l’alimentazione italiana era basata su cereali, legumi, verdura, pochissimi insaccati e formaggio, qualche uovo e un po’ di vino.
Carne se ne mangiava pochissima ed i dolci erano riservati alle feste e alle occasioni speciali.
I progressi della chimica raggiunti durante la Seconda rivoluzione industriale permisero di sviluppare anche l’industria alimentare.
Pasteur dimostrò che la fermentazione di molte sostanze avviene a causa di alcuni germi e mise a punto un procedimento per conservare prodotti alimentari, che dal suo nome venne chiamato pastorizzazione.
Altre ricerche furono estese al processo di congelamento, che furono applicate alle carni di bovino e successivamente alle verdure.
Infine l’inscatolamento dei prodotti alimentari in scatole di latta a chiusura ermetica.
abbinati all’enorme estensione raggiunta dalla rete ferroviaria nei paesi più avanzati , rappresentarono una grande svolta nell’alimentazione.
Con questo sistema anche i cibi più deperibili potevano essere trasportati a grande distanza. Ciò significò non soltanto l’apertura di nuovi mercati ma anche una nuova varietà nell’alimentazione.
Crebbe il sistema ferroviario e marittimo, che portò ad uno sviluppo dei commerci.
Un altro aspetto che caratterizzò questa rivoluzione fu il progressivo prevalere del capitalismo finanziario rispetto a quello industriale, con l’intrecciarsi di interesse tra banche e industrie.
Un periodo molto importante che permise agli operai di cominciare a protestare e opporsi alla classe borghese, protesta che, si può dire, continua a che oggi.
Foto: Archivio Storico Crespi d’Adda Legler