Un’architettura originale
Introduzione all’architettura di Crespi d’Adda
Il villaggio industriale di Crespi d’Adda è oggetto perfetto ed emblematico della rappresentazione di diversi fenomeni esemplari della febbrile epoca della Rivoluzione Industriale.
È come un palcoscenico la cui rappresentazione è il lavoro. E come ogni buon teatro lirico è di per sé commedia e opera. Molto da indagare, molto da non afferrare.
La visita di un luogo fuori dal tempo sembra appagarsi spesso da una fruizione disattenta e superficiale, in sintonia con i tempi moderni dove slogan, mode, artifici che ammiccano al visitatore prevalgono rispetto al più impegnativo confronto con lo scomodo approfondimento storiografico.
L’orizzonte del rendimento, la nostalgia del passato, l’egemonia dell’estetismo, il trionfo della geometria assecondano il visitatore ad ignorare la circostanza che l’ambiente che lo circonda è politicamente significativo.
In fondo, fare architettura è fare politica. Architettura è pensare per i cittadini un ambiente più vivibile. Infatti, superando la funzione meramente utilitaria della costruzione, la bellezza è, nelle case private, il lato più propriamente civico e sociale. È il lato in cui il committente esprime la propria virtù di cittadino.
Non per nulla Palladio enunciava come dovere civico il dare alle proprie abitazioni “forma bella e varia”.
La preminenza della rappresentazione non investe soltanto il lato costruttivo, in quanto è preminenza di ciò che nella fabbrica del villaggio è rappresentativo rispetto a ciò che è meramente funzionale.
Mentre la funzionalità dell’edificio riguarda soltanto chi quel fabbricato deve utilizzare, la bellezza riguarda tutti, in quanto la contemplabilità di un edificio ha per destinataria la totalità dei cittadini e di coloro che in quel luogo, in quel momento, si trovano.
Nessuna opera umana può essere spiegata al di fuori del contesto economico, sociale, politico e culturale che l’ha vista nascere ma, una volta finita, compiuta, realizzata diviene essa stessa strumento di divulgazione dell’ambiente che la circonda e che le ha dato i natali. Tutte le civiltà hanno lasciato dietro di loro opere che ne hanno raffigurato i loro ideali più ambiziosi.
“L’architettura è il quadro di vita che una società si assegna” ripeteva sempre Saskia Sassen.
In questo senso, il villaggio industriale di Crespi d’Adda è capsula della memoria a cielo aperto e, al tempo stesso, il regno dell’oblio. È uno dei pochi luoghi lombardi nel quale si può avere la misura dello spazio e, allo stesso tempo, dove gli orizzonti sono ancora infiniti.
In un trionfo della geometria, intenta a dare una misura antica e un’aura nobile e religiosa alla serialità industriale, lunghe file di regolari casette se ne stanno tutte in fila a contemplare la fabbrica, vate delle future umane speranze.
Lo stabilimento non è più un edificio, cioè il contenitore di una funzione, ma un sistema urbano: un rione, un quadrivio, un alveare, un portico medievale che raccoglie tutti i suoni e i percorsi concentrici del borgo chiocciola.
Nonostante le vertiginose acrobazie teoretiche per giustificare l’insardinamento di esseri umani, ogni dettaglio della costruzione sembra pensato in funzione della dimostrazione dell’annullamento del singolo, ridotto a parte insignificante di una massa sterminata di comparse. La rappresentatività non solo primeggia sulla funzionalità ma addirittura sembra indirizzarla tanto che le esigenze della vita attiva, cui sono asservite le costruzioni, vengono trasvalutate in se stesse, liberandosi dalla loro pesantezza e servilità, trovando riposo nella contemplazione.
Gli edifici sono concepiti come palcoscenici per attori di una rappresentazione idealizzata dell’esistenza operaia. Una scultura sociale.
Il palinsesto architettonico, le scelte decorative si fanno interpreti al villaggio industriale di Crespi d’Adda della volontà di creare nuovi spazi monumentali, moderni, igienici e educativi. Coloro che vi lavoravano e vivevano dovevano subirne il fascino ed esserne al tempo stesso protagonisti assoluti: l’architettura, le forme, i decori sono chiamati a essere il manifesto, l’ostensione della nuova società che si affaccia al nuovo secolo.
Il villaggio industriale di Crespi d’Adda è la città che cambia al ritmo del lavoro.
È la dimostrazione della smisurata fiducia nel progresso, nel lavoro e nell’industria.
Gli spazi e le forme possiedono qui una forte carica comunicativa che arriva a farsi narrazione attraverso la chiara leggibilità dei segni disposti come a continuare un racconto, una storia che non c’è più e dove proprio l’ornamento è lo strumento principe di questo narrare.
Marco Iannucci dettaglia che “Crespi d’Adda non è stato modellato dalla vita ma da un’idea. La vita è un miscuglio di esigenze disordinate e contraddittorie. Qui l’atmosfera è diversa: da un lato più nitida, dall’altro è come se mancassero alcuni segni della vita a cui siamo abituati. E tutto ha qualcosa di sospeso e un po’ irreale”.
Tranquillo ma rigoroso, accogliente e inquietante, l’architettura di Crespi d’Adda è allo stesso tempo torre di Babele e labirinto di Cnosso.
Un singolare ingranaggio che abbraccia calcolo e sogno di una bellezza attraente ma indefinibile, come un verso il cui senso ultimo, se davvero ne esiste uno, sfugge continuamente al suo traduttore. Come uno di quei disegni di Escher in cui scalinate infinite sbucano dal nulla per finire nel nulla, in un brivido di mistero, nel soffio di un enigma che tutto invade, che dappertutto si insinua, che non lascia respiro.
Qui decade il dogma della separatezza tra l’industriale e l’artistico, tra il funzionale ed il contemplativo, tra il razionale ed il fantastico, tra l’utile ed il bello, trovando compiuta sintesi nel territorio.
Il villaggio industriale di Crespi d’Adda riesce a rendere omogeneo il differente, isotopo l’asimmetrico, assicurando a tutti i suoi cittadini una pari partecipazione simbolica e facendo convivere l’immagine di una città democratica che regola l’appartenenza dei cittadini alla comunità, con l’evidente fatto che nella sua consistenza fisica si specchia la gerarchia sociale e lavorativa, denunciando visivamente lo scarto tra l’orizzonte immaginario e la realtà.
Gli edifici del lavorare e del vivere si combinano per creare una unica poetica della forma, imponendo una visione culturale che permea completamente l’esistenza personale ed, al contempo, stabilendo il mirabile equilibrio formale del nuovo paradigma costruttivo della fabbrica totale: una utopia di cotone e di mattoni. Di telai e di sudore operaio che ti prendeva la vita senza chiederti il permesso.
Visitare il villaggio industriale di Crespi d’Adda è un viaggio iniziatico nella religione del lavoro che fu l’elemento propulsore dello sviluppo industriale ed economico che pose le fondamenta dei valori della società in cui viviamo oggi.