Castello
L’architettonico vertice gerarchico del villaggio operaio è rappresentato dalla villa padronale. Un castello, una casa abbandonata che fa sempre un effetto sinistro ma non sembra affatto un rudere anche se reca ancora le stigmate di quel gusto eclettico che, insieme al liberty, caratterizzerà i primi quindici anni del Novecento.
Ha piuttosto l’aria di una di quelle gentil dame decadute cariche di antichi veli sdruciti e di cianfrusaglie fuori moda che vivono isolate dal mondo tra i fantasmi di un glorioso passato.
Villa Crespi è un vero e proprio castello, realizzato sulla scia citazionista del tempo che si inserisce nel particolare clima imprenditoriale coevo, pensato come uno zibaldone di architettura neomedioevale caratterizzato da torrette, polifore e cuspidi con l’evidente intenzione di enfatizzare il ruolo di moderno “feudatario” del villaggio che, alla stregua di un vero e proprio signorotto, un giorno regalava ai suoi sudditi asili e scuole ed il giorno dopo poteva anche condannarli all’ignominia e alla fame.
Il paramento in mattoni a vista, le decorazioni in pietra, i cornicioni sporgenti, il complesso intreccio di balconi, loggiati e la merlatura ghibellina sono tutti elementi che contribuiscono a caratterizzare questa inconfondibile architettura. Tuttavia, più che il rigore filologico nei confronti degli stili storici, il palazzo rivela la volontà di far rivivere la severa atmosfera dei manieri medievali.
Esuberanti stemmi gentilizi, fregi con animali mostruosi, bifore e trifore neoromantiche, archetti decorativi esaltano la potenza economica dei Crespi. Il loro stemma figura in un affresco allegorico tra Mercurio e Flora che reca la conocchia, simbolo dell’industria tessile.
Altro riferimento medievalista che non sfuggirà al visitatore è la posizione dell’edificio di culto che si trova sullo stesso asse della villa padronale, dando un forte senso al collegamento tra i poteri spirituale e temporale.
All’interno gli spazi prevedevano quarantaquattro stanze e tre balconate che si affacciano sul grande e scenografico atrio centrale quadrato.
Si può immaginare che ogni pietra che lo sosteneva fosse forgiata con il sangue ed il sudore di intere generazioni di crespesi che non avrebbero mai potuto permettersi neppure di sognare di mettere piede in un palazzo come quello.
Allo scrivente piace riportare la descrizione che dell’edificio scrive Tullo Massarani all’ipotetico visitatore che si accinge all’ingresso nel villaggio, dove l’autore, nonostante i riferimenti desunti da un Medioevo liberamente rivisitato, guarda al castello come a un edificio simbolo non tanto del potere feudale bensì del bagaglio letterario del proprietario e del suo architetto, intriso di evidenti suggestioni romantiche.
Siamo nel 1906.
“Ecco rizzarglisi innanzi, cinto, è vero, non da fossati e baluardi, ma da un ampio ed ombroso giardino, un castello doppiamente turrito, una vera apparizione medioevale, evocata però in tutta quella nitidezza di fronti , che è propria di un edificio modernissimo, illeso, intatto in ogni sua parte. Che singolarità è mai questa? Ne richiedete il primo fanciullo che passa, e vi dirà che quello è il palazzo del Scior, del padrone, in altro linguaggio; del Deus ex-machina, da cui pendono, fino a che non venga, beninteso, a mescolarsene malauguratamente un qualche sciopero, le sorti di tutta questa numerosa brigata, quasi due migliaia, di ben assestati e provvisti lavoratori. Ma perché, di grazia, invece di un palazzo o di una villa, un castello? Ha egli voluto, l’artista, compiacersi di una bizzarria architettonica, ovvero di un epigramma sociale? Forse egli ha voluto mettere in canzone, avendo l’aria di assecondarla, quella insinuazione tendenziosa, come oggidì si direbbe, quella frase fatta, con cui da taluni il ceto dei grandi industriali si suole battezzare di feudalità moderna. L’architetto Pirovano è un giovane di spirito, al quale non si fa torto apponendogli la maliziosa intenzione di questa frecciata. Sicuro – pare ch’ei voglia dirvi – questi signori innalzano bastite e torri, le coronano di più ordini di merlature, fanno correre cammini di ronda coperti sugli aggetti dé piombatoj, riempiono di blasoni ogni insenatura, scolpiscono fazioni d’armi in tutto tondo o di mezzo fin sui segmenti lasciati liberi dalle arcate dei loro veroni, fin sui capitelli delle colonnine che partiscono le bifore o le trifore dei loro loggiati. Ma badate u po’ intorno: dove sono i vassalli, dove i lanzi e gli sgherri? Linde casette e verdi orticelli, ampi, ventilati salubri laboratori; pei fanciulli cure affettuose e solerti, da disgradarne quelle dei genitori medesimi, che il lavoro allontana, per buona parte della giornata, dai propri focolari; per tutti infine, poveri e ricchi, una chiesa, un asilo in cui incontrarsi in uno stesso ideale di speranze oltremondane, in cui abbracciarsi riuniti da uno stesso divino insegnamento di mutua benevolenza.”
Roberto Romano riporta che all’inizio del Novecento al servizio della famiglia Crespi lavoravano nel castello due cuochi, due domestici, una cameriera, due cocchieri, due istitutrici, una balia e un portinaio.
Approfondimenti disponibili:
- “La Regina Margherita in visita a Capriate” – Eco di Bergamo