Case degli operai
Le abitazioni operaie vennero realizzate originariamente per ospitare due famiglie, al tempo solitamente allargate e numerose, attraverso una divisione verticale, metà di ciascun piano a famiglia, o orizzontale, un piano a famiglia.
È davvero improprio parlare di edilizia popolare per questi alloggi la cui concezione architettonica era basata su poche ma chiare idee essenziali, tanto scarne a volte da potere apparire addirittura banali. Le decorazioni in cotto che un tempo ingentilivano gli edifici operai come i precedenti descritti non sopravvissero alla banalizzazione fascista degli anni Trenta.
Ogni casetta è pressoché equidistante dall’altra al fine di conferire una spazialità atmosferica quantitativamente sufficiente a creare alternanze ritmate dalla geometria dell’insieme e del verde, mentre le recinzioni delle singole proprietà accentuano maggiormente tale riquadratura.
Le casette hanno un aspetto semplice ma dignitoso, si innalzano di due piani sulla base quadrata di circa dodici metri di lato. All’interno la divisione in stanze quadrate non comprendeva in origine il bagno le cui funzioni venivano svolte da una latrina posizionata nel giardino di ogni casa e dai bagni e docce pubbliche localizzate in una struttura collettiva al centro del villaggio.
Le famiglie assegnatarie si dividevano le stanze in proporzione al numero dei componenti, generalmente molti dato che il nucleo poteva comprendere una sorta di vera e propria comunità composta anche da suoceri, cognati, zii e cugini.
L’assegnazione avveniva, quando era possibile, nel momento dell’assunzione e, essendo la loro funzione strettamente riservata alle esigenze di fabbrica, veniva revocata nel caso in cui il capofamiglia o i componenti della famiglia cessavano, per qualsiasi motivo, il rapporto di lavoro.
Le case sono tutte circondate da un giardino quadrato recintato in modo caratteristico con basse cancellate nere che venivano realizzate intrecciando le “reggette” dell’imballaggio del cotone grezzo che giungeva in fabbrica.
Nella parte antistante la casa veniva di solito curato un giardino con fiori e aiuole, mentre la parte posteriore veniva dedicata esclusivamente all’orto, che consentiva di arrotondare lo stipendio con la coltivazione autarchica di verdure e ortaggi, retaggio di un mondo abituato a imprecare Dio, a confidare nelle proprie mani e nella forza della loro schiena.
Oltre a consentire a Silvio Benigno Crespi di scrivere che, grazie ad esse, “la tranquillità e l’igiene del villaggio operaio sono perfette: le morti sono rarissime, le malattie infettive o non attecchiscono o non si propagano: le nascite troppo frequenti formano la più seria preoccupazione del proprietario”, queste abitazioni furono lo strumento indispensabile per creare una manodopera affezionata evitando lo spauracchio di ritrovarsi con “operai girovaghi, cupidi soltanto di un maggior guadagno”.
L’assenza di elementi decorativi riconducibili agli elementi ornamentali delle abitazioni del medico e del cappellano non colga in errore poiché, un tempo, anche le abitazioni operaie erano ingentilite da decorazioni in cotto rosso nel contorno delle finestre, nella fascia del sottotetto e nel marcapiano, come risulta in parte visibile nelle case oggetto di più recente ristrutturazione dove la pulizia delle facciate le ha riportate alla luce.
Nel 1929, infatti, quando la direzione della fabbrica era di orientamento fascista e il nome del villaggio era stato modificato in “Tessilia”, venne deciso un ammodernamento delle strutture abitative da attuarsi con la realizzazione, in aderenza della parte posteriore delle abitazioni, di un parallelepipedo, ben osservabile in tutte le costruzioni, in cui vennero realizzati i bagni per ché “chi possiede un luogo di decenza è insomma padrone di defecare in maniera conveniente e profittevole”.
La fisionomia delle casette fu anche trasformata “fisicamente” in senso mussoliniano, attraverso la politica del “piccone risanatore”, secondo le linee di uno stile nazionale, cioè di quel linguaggio architettonico che nella sua chiarezza e linearità apparivano come la tangibile rappresentazione dei valori di purezza e dirittura morale tanto cari all’etica fascista: sfruttamento di materiali tradizionali per una sperimentazione stilistica nel segno della semplicità e del rigore formale.
La sparizione di fregi e decorazioni che fanno posto a linee ortogonali, semplici, sinonimo di funzionalità e ripetibilità venne giustificata anche da incontrovertibili esigenze di bilancio.
I contorni delle finestre in mattoni rossi, che spiccavano sul colore delle bianche pareti in intonaco civile, vennero scalcinati, così come le civettuole decorazioni del sottotetto che, seppur modeste, non incarnavano la semplicità ed il rigore coevo. Il marcapiano venne invece completamente eliminato. È in questo periodo che si modifica la colorazione delle abitazioni che, per spirito patrio, vengono ridipinte con uno dei colori della italica bandiera: bianche, rosse o verdi.
In origine, le casette vennero edificate con una impostazione moderna e “igienica” per il tempo. Ogni stanza aveva almeno due grandi finestre e i soffitti erano molto alti al fine di favorire la presenza di aria pulita e sole all’interno dell’abitazione.
A titolo di corrispettivo per la loro concessione, al lavoratore crespese la fabbrica tratteneva direttamente un canone dallo stipendio. Questi non doveva nemmeno occuparsi della manutenzione dell’immobile, attività demandata direttamente ad un gruppo di operai a questo scopo dedicata.
La lettura di alcuni brani del libro “Dei mezzi per prevenire gli infortuni e garantire la vita e la salute degli operai nell’industria del cotone in Italia”, pubblicato nel 1894 potrebbero fare oggi sorridere. Silvio Benigno Crespi vi riporta la ferma convinzione che “ultimata la giornata di lavoro, l’operaio deve rientrare con piacere sotto il suo tetto: curi dunque l’imprenditore ch’egli si trovi comodo, tranquillo ed in pace: adoperi ogni mezzo per far germogliare nel cuore di lui l’affezione, l’amore alla casa. Chi ama la propria casa, ama anche la famiglia e la patria, e non sarà mai la vittima del vizio e della neghittosità”.
E continuava sostenendo che “i più bei momenti della giornata sono per l’industriale previdente quelli in cui vede i robusti bambini dei suoi operai scorazzare per fioriti giardini, correndo incontro ai padri che tornano contenti dal lavoro; sono quelli in cui vede l’operaio svagarsi ad ornare il campiello o la casa linda e ordinata: sono quelli in cui scopre un idillio od un quadro di domestica felicità; in cui fra l’occhio del padrone e quello del dipendente scorre un raggio di simpatia, di fratellanza schietta e sincera. Allora svaniscono le preoccupazioni d’assurde lotte di classe, e il cuore si apre ad ideali sempre più alti di pace, d’amore universale”.